Anno del Signore 1175
“ […] Dio opera dove vuole, per la gloria del suo nome, non per quella dell’uomo terreno. Ma io son sempre tremante di timore, perché non so con certezza di avere alcuna capacità. Ma tendo le mani a Dio, cosicché, come una piuma che manca di qualsiasi peso e forza, e vola al vento, possa essere sostenuta da lui. E non posso [vedere] chiaramente le cose che vedo nella mia condizione corporea e nella mia anima invisibile, perché in entrambe le cose l’uomo è difettoso.
Sin dalla mia infanzia, comunque, quando ancora non ero forte di ossa e nervi e vene, ho sempre avuto questa visione nella mia anima; fino ad ora, che ho più di settant’anni. E come Dio vuole, in questa visione il mio spirito sale in alto, nelle altezze del firmamento, in aria diversa, e si dilata tra differenti nazioni, per quanto siano in regioni remote, in luoghi distanti me.
E dato che vedo tali cose in tale modo, perciò le osservo anche nelle forme mutevoli delle nubi e di altre cose create. Ma non le sento con le orecchie del corpo, né coi pensieri del cuore, né le avverto con uno dei cinque sensi, ma solo nell’anima mia, gli occhi aperti, in modo da non perdere mai coscienza nell’estasi (extasis); no, vedo tali cose da sveglia, giorno e notte.
E sono costantemente tormentata da malattie, e tanto presa da forti dolori, che minacciano di condurmi a morte; ma finora Dio mi ha sorretto.
La luce che vedo non ha spazio, ma è molto, molto più luminosa di una nuvola che avvolga il sole. Non posso valutarne l’altezza, la lunghezza o la larghezza; e la chiamo “l’ombra della luce vivente”. E come il sole, la luna e le stelle si rispecchiano nell’acqua, così la Scrittura, i discorsi, le virtù e alcune opere di uomini prendono forma per me e si riflettono luminosi in quella luce.
Qualsiasi cosa abbia visto o imparato in questa visione, me ne ricordo per lungo tempo, di modo che, se una volta ho visto e udito, posso serbarne memoria; e vedo, odo e conosco simultaneamente, e imparo quasi nello stesso momento in cui so.
Ma non so quello che non vedo, perché non sono istruita. E le cose che scrivo, sono quelle che vedo e odo nella visione, né vi pongo altre parole che quelle che odo; le esprimo con un latino non raffinato, proprio come le odo nella visione, dato che in essa non mi si insegna a scrivere come scrivono i filosofi. E le parole che vedo e che odo in questa visione non sono come parole che vengano da labbra umane, ma sono come fiamma scintillante, come nubi che si muovano in aria pura. Inoltre, non posso assolutamente sapere la forma di questa luce, proprio come non posso distinguere bene la sfera del sole.
E nella stessa luce a volte, non spesso, vedo un altro splendore, che io chiamo “lo splendore vivente”: quando e come, non riesco a dire; “e per il tempo che lo vedo, sono sollevata da ogni tristezza e da ogni angoscia, cosicché in quei mesi ho l’aspetto di una giovane innocente, e non quello di una vecchietta. Ma per via della continua malattia di cui soffro, mi stanco a volte di manifestare le parole e le visioni che mi sono mostrate; nondimeno, quando la mia anima, gustandole, vede tali cose, sono tanto trasformata nel comportamento, che, come ho detto, affido all’oblio ogni dolore e tribolazione. E ciò che allora vedo e odo nella visione, l’anima mia se ne abbevera quasi come da una fontana: ma la fontana resta sempre piena, inesausta.
L’anima mia però mai manca della luce detta “ombra della luce vivente”. La vedo come se guardassi un firmamento senza stelle entro una nuvola di luce. E là vedo cose di cui spesso parlo, e che do in risposta a coloro che mi chiedono del fulgore dello splendore vivente.
Fu poi nella mia visione che vidi che il mio primo libro di visioni avrebbe dovuto chiamarsi Scivias [“Conosci le vie”], perché fu svelato per via della luce vivente, non derivato da altro insegnamento. Ma [quanto alla tua domanda] a proposito delle tiare: ho visto che tutti gli ordini della Chiesa recano insegne luminose secondo la luminosità celeste, ma la verginità non ha un segno luminoso: null’altro che un velo nero e l’immagine della croce.
Così vidi che questo sarebbe stato l’emblema della verginità: il capo di una vergine sarebbe stato coperto da un velo bianco, per via della veste candida che l’uomo aveva in paradiso e che ha perduto. Sul capo vi sarebbe un anello (rota) con tre colori in uno – immagine della Trinità – e con quattro medaglioni attaccati: quello davanti a indicare l’agnello di Dio, quello di destra un cherubino, quello di sinistra un angelo, quello dietro un uomo: tutti inclinati verso la [immagine della] Trinità. Quest’emblema datomi renderà lodi a Dio dato che ha rivestito il primo uomo del bianco splendore della luce.
(P. Dronke, “ Ildegarda di Bingen” in Donne e cultura nel medioevo, Milano 1986, 404-406)



