Una delle esperienze tipiche dello scrittore in erba è l’imbarazzante constatazione della distanza che appare ai suoi occhi, tra lui e il suo scritto a distanza di tempo. Quella parola che prima ci appariva viva, ora appare opaca, a volte davvero brutta o ingenua, addirittura estranea. Ci sono alcune volte che sommessamente chiediamo: “ Ma chi ha scritto questa cosa?”, o ancora: “che orrore!”, o “ma che ingenuità”.
Tutti gli scrittori prima o poi attraversano il terreno di una salutare vergogna. E non solo loro.
Ma questa esperienza va analizzata a fondo. Essa infatti rivela il nostro essere in cammino, il nostro essere non ripetitivo. Piuttosto siamo esseri aperti, in divenire, e pur potendo dire dalla nascita alla morte : “Io”, quell’io non è certo lo stesso in tutte le fasi della nostra vita. c’è qualcosa che resta e qualcosa che cambia. Questo cambiamento, si rivela nella pratica della scrittura. Più si accresce l’intervallo di tempo tra l’atto dello scrivere e quello del leggere e più si rivela la distanza tra la nostra attuale esperienza e quella di un tempo.
Scrivere perciò è una pratica spirituale che rivela lungo la linea del tempo, le tappe del nostro cambiamento, il cammino della nostra vita.
Ma c’è qualcosa di più.
Ci sono alcune parole, alcuni testi, ad esempio, che non guardano a questa mutevolezza, la riservano soltanto al vestito esterno della lingua. Sono invece testi che parlano sempre. Ogni frase, ogni immagine, attira il lettore dentro l’autenticità dell’esistenza perché si preoccupa più ai movimenti dello spirito che del nostro solo corpo. O per meglio dire, guardano alla bellezza dello spirito attraverso l’insieme dei gesti e delle parole visibili. Ciò che è fermo è raggiunto mediante ciò che si muove.
Sono parole che guardano dentro le cose piuttosto che la loro superficie mutevole. Le parole che spiegano ciò che appare in superficie, generalmente passano, cambiano. La cronaca ad esempio, fa parte di questa narrazione mutevole. Le altre appartengono di più al regno dell’eterno
Ma ci sono al contrario altre parole che guardano al mondo dell’invisibile, che cercano il fondamento di ciò che muta, parole che parlano dell’interiorità, dei valori, delle scelte di fondo: queste parole sono sempre ‘parlanti’. Ci riguardano addirittura sorpassano i secoli, vanno oltre l’infinito. Parole come quelle contenute nell’epopea di Gilgameš, nell’Odissea, nelle tragedie di Eschilo e negli scritti di Seneca. Quelle più recenti di Simone Weil, Idegarda di Bingen o di Edit Stein, fino ad arrivare ai testi sacri di ebrei e cristiani… queste parole sono ancora vive perché intercettano il mondo dell’invisibile. Così ogni parola che attraversa ciò che si vede per arrivare al fondo invisibile delle cose e degli uomini regge il confronto con Kronos.
Per un credente, per una serie di motivi che sarebbe lungo elencare, penso che la parola di Dio contenuta nelle Sacre Scritture, sia una parola parlante per eccellenza. Perché la parola di Dio, proprio perché ‘di Dio’ è sempre una parola che ci riguarda nel profondo.
La parola di Dio è l’unica che dichiarando la distanza da noi, parla di noi a noi stessi. Parola Specchio che riflette la nostra vera immagine e parola spada che distingue e separa bene e male. Parola che parla sempre, scuote, dona luce agli occhi.
Sia benedetta questa Parola che continuamente si dona con noi e oltre noi, nel mondo. Siano benedette tutte quelle parole che parlano ancora oggi di ciò che resta per sempre.