Il mondo greco aveva almeno otto vocaboli per definire il particolare legame tra due persone che noi chiamiamo amore: Agape, Philia, Eros, Anteros, Himeros, Pothos, Storgé, Thélema.
In tutte queste nominazioni, veniva raccolta l’intera gamma di quel particolare legame che chiamiamo amore, pensandolo ora come puro dono senza ritorno, ora come possesso, quello familiare o quello tra amici o amanti. Infine, ma non da ultimo, l’amore che ci anima quando agiamo per perseguire autenticità e realizzazione di sé. (vedi qui)
Io vorrei soffermarmi sul quel legame che nasce all’interno della famiglia, tra genitori e figli, come pure su quello che quasi naturalmente accade tra un maestro e un suo discepolo. Allargando lo sguardo penserei anche a tutti coloro che avanzando nell’esperienza in un campo della vita o del sapere si offrono agli altri come loro maestri. Sport, sentimenti, ricerca scientifica, affetti… Gli ambiti sono dunque molteplici.
Parto da un episodio biblico.
Nel Vangelo di Giovanni viene narrato come Andrea e Giovanni prima di essere apostoli di Gesù furono discepoli di Giovanni Battista. Il racconto si trova al capitolo primo del quarto Vangelo. Fu proprio Giovanni Battista ad inviarli a Gesù.
Con quel gesto, Giovanni diminuisce così la sua influenza nei loro confronti, e per questo diventa grande. Lui li ha cresciuti esattamente per una verità più grande di lui, ora li lascia andare, perché c’è qualcosa di più grande di lui da seguire. Ecco perché è vero maestro: perché non li lega a sé e non li trattiene per ricavare un narcisistico contraccambio. Al contrario li rende autonomi, li libera facendogli seguire la loro strada, quella che hanno scritto da sempre nella loro anima.
Clive Staples Lewis, nel suo libro I quattro amori, (capitolo III) spiega molto bene questo dinamismo di crescita e lascito, parlando di libertà e liberazione, come di un attributo necessario di ogni forma di affetto che si instaura tra genitori e figli (storgé in greco) o anche tra professore e studente.
Ecco, diciamo sinteticamente che genitori e maestri non fanno cloni di se stessi, ma generano persone diverse da loro.
La loro grandezza sta nel rendere indipendenti e liberi chi gli sta davanti senza scimmiottamenti e fotocopiature – se così si può dire – di coloro che li hanno seguiti.
Lewis, che fu un grande letterato e seguitissimo professore universitario, distingue perciò l’amore bisogno (Need-Love) dall’amore dono (Gift-Love), dove il primo nasce da una mancanza o una necessità (lui pensa a quello del bimbo verso la madre) e il secondo invece dal desiderio di donare se stesso agli altri, dalla generosità di chi vuole il bene dell’altro senza pretendere o aspettarsi nulla in cambio. Quest’ultimo è un imitazione umana dell’amore divino cioè della Carità (Ágape).
Ma le cose, spiega, spesso non sono così nette. I due amori molte volte si mescolano e ciò non deve preoccuparci, bisogna solamente riconoscere i pericoli ed evitarli.
Lewis ricorda che entrambi gli amori sono esposti a possibilità di degenerazione: l’amore dono può diventare invadente o dittatoriale, mentre l’amore bisogno rischia di convertirsi in pretesa e ossessione. Qui tutto si ammala e sfiorisce. Per questo ciò che bisogna sempre ricercare è il dono dell’equilibrio e la maturità degli affetti, poiché da una parte riconosciamo i nostri bisogni, ma dall’altra è necessario riconoscere anche l’importanza di donarsi agli altri. Il primo amore è cura di sé, senza del quale si diventa poveri ed incapaci di donazione, il secondo invece è carità che nutre il mondo (e noi stessi). Quando si è è unilaterali nell’affettività tutto salta in aria.
Questo accade quando il maestro (o il padre o la madre) vuole – consciamente o inconsciamente – generare uno perfettamente uguale a se stesso, e lo fa quando non cerca di costruire il bene dell’altro, quello che realizza l’altro, ma desidera un proprio bene per l’altro, quello che lui pensa, senza discernimento vero, sia la cosa giusta da fare. Facendo così pian piano crea un altro se stesso. Uno specchio di se stesso. un clone insopportabile alla vista. Egli facendo così dimentica che discepoli, studenti o figli, hanno la loro personalità da coltivare e far fiorire, hanno un loro cammino, una loro vocazione.
Infine bisogna precisare in che modo l’amore-dono (tipico di genitori, maestri, professori universitari, religiosi, tutor) deve evitare i pericoli e rimanere autentico:
Ecco due esempi tratti dal libro di Lews, I quattro amori:
“L’affetto materno, infatti, è un «amore dono» ma tale da avere bisogno di dare; perciò ha bisogno di rendersi necessario, mentre lo scopo proprio di un dono dovrebbe essere quello di porre chi Io riceve nella condizione di non avere più bisogno del nostro dono. Si nutrono i figli per metterli presto in grado di nutrirsi da soli; si insegna loro affinché presto possano fare a meno dei nostri insegnamenti. È dunque un compito ingrato quello che spetta all’«amore dono»: esso deve, infatti, operare in vista della propria abdicazione. Dobbiamo mirare a renderci superflui. Il momento in cui potremo dire: «Non hanno più bisogno di me» dovrebbe anche essere il momento della nostra ricompensa.
Ma il nostro istinto, di per sé, non può arrivare tanto; esso desidera il bene del proprio oggetto, ma non in maniera così limpida: desidera soltanto il bene che noi stessi possiamo dargli. Dovrebbe invece subentrare un tipo d’affetto più alto, che desideri veramente e soltanto il bene del proprio oggetto, da qualunque parte gli venga, aiutandoci ad addomesticare l’istinto, e a metterlo quindi in grado di abdicare. Questo riesce di frequente; ma dove ciò non si verifica, il bisogno famelico di rendersi necessari troverà giustificazione in sé stesso, o tenendo il proprio oggetto in una condizione di eterna dipendenza, o creando per lui dei bisogni fittizi. E lo farà con tanta maggiore spregiudicatezza quanto più sarà convinto, con un fondamento di verità, di essere un «amore dono» e, come tale, «altruista».
[…] Anche la mia professione—l’insegnamento universitario—è, in questo senso, pericolosa. Se un docente vale davvero, dovrà impegnarsi affinché giunga presto il momento in cui i suoi allievi saranno in grado di essere i suoi critici e rivali. Dovremmo provare un gran piacere, una volta giunto questo momento, allo stesso modo che il maestro di scherma è soddisfatto quando un allievo arriva a toccarlo con il fioretto e a disarmarlo. E molti, effettivamente provano soddisfazione.
Ma non tutti.
Sono abbastanza avanti negli anni per ricordarmi del triste caso del professor Quartz. Nessuna università potrà mai vantare un insegnante più efficiente, o più devoto. Egli dava tutto se stesso agli allievi, lasciando in ciascuno di loro un’impronta indelebile, e diventando non di rado l’oggetto di una venerazione per buona parte meritata. Era naturale, e bello anche, che essi continuassero a fargli visita anche dopo che era cessato il loro rapporto professionale; lo andavano a trovare a casa, la sera, e face vano memorabili discussioni. Ma il fatto curioso è che questo stato di cose non durava mai a lungo. Prima o poi— potevano passare pochi mesi, oppure poche settimane—, giungeva la sera fatale in cui, bussando alla sua porta, si sentivano rispondere che il professore era occupato. Questo significava che erano stati banditi per sempre dalla sua presenza. Il motivo di questa decisione era che, nell’incontro precedente, lo studente si era ribellato e aveva sostenuto la propria indipendenza intellettuale, dissentendo dall’opinione del maestro e sostenendo il proprio punto di vista, fors’anche con qualche successo”.
(C.S. Lewis, I quattro amori, Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Cap. III)



