Sul lascito della parola | Gian Luigi Beccaria (Linguista 1936 – )

“E a mio avviso auspicabile [fare ndr.] un passettino in più, che consiste nel mostrare come una lingua sia lo specchio fedele, oggettivo di una cultura e di una società, affinché ci si renda conto che la parola è come l’acqua di fonte, un’acqua cheta in sé i sapori della roccia dalla quale sgorga e dei terreni per i quali è passata, e si possa allora vedere come le parole consentono assai bene il recupero di tratti culturali del passato e del presente.

Ci si potrà allora utilmente occupare delle correnti dotte e popolari che solcano la nostra lingua materna, il suo rapporto con i dialetti, la compagine plurilingue di una nazione, l’Italia delle Regioni, le minoranze linguistiche, sostrati e adstrati: tutti i modi che permettono di vedere come in una lingua storia, cultura e società si intrecciano in maniera inestricabile.

Una lingua non è un puro sentimento di comunicazione, un elemento meramente “funzionale”. Non è solo un codice, come un qualsiasi altro sistema segnico contenuto, non esprime soltanto delle operazioni mentali sul piano comunicativo. Una lingua è colma di “umori” , di stratificazioni, di armoniche, di evocazioni, di allusioni culte e anche immediate e “popolari”, ricchezza di varianti di registi, ha radici profonde, e si ramifica in continui richiami e rimandi.

Per tutti questi motivi “mette a contatto” profondo chi parla e chi ascolta, chi scrive e chi legge”.

(Gian Luigi Beccaria, In contrattempo. Un elogio alla lentezza, Einaudi 2022, 21)