Alcuni pensano che la regola migliore sia quella di moderare l’ira ma senza eliminarla del tutto: una volta che le sia stato tolto quanto trabocca, ridurla a misura di utilità pratica, serbandone quel tanto senza cui l’azione si smorza e la forza ed il vigore d’animo si dileguano.
Prima di tutto, è più facile eliminare le passioni rovinose che controllarle, non dare loro adito che governarle dopo averle accolte; infatti, una volta che sono diventate padrone, sono più forti del loro presunto governatore, e non si lasciano sfrondare o sminuire.
Poi, anche la ragione, che tiene in mano le redini, ha potere solo per il tempo in cui rimane isolata dalle passioni, ma una volta che si sia confusa con esse e ne sia rimasta contaminata, non riesce più a controllarle, mentre, prima, le avrebbe potute bandire.
La mente, una volta turbata ed abbattuta, è schiava di ciò che la stimola.
Certe cose sono sotto nostro controllo all’inizio, ma, con la loro forza, ci sottraggono il seguito e non ci consentono un ripensamento.
Come i corpi, che stanno precipitando, non possono più disporre di se stessi, non sono in grado di arrestare o di rallentare la propria caduta, perché il precipitare irrevocabile esclude ogni riflessione e pentimento e non è più possibile non arrivare là dove, prima, era possibile non andare, così l’animo, se si getta nell’ira, nell’amore e nelle altre passioni, non si sente più in grado di fermare lo slancio: è ineluttabile che il suo stesso peso e la natura del vizio, propensa al basso, lo trascinino e lo spingano fino in fondo.
(Seneca, De Ira, I 7, 1-4)
La regola migliore è di rifiutare subito il primo insorgere dell’ira, combatterne i remoti principi ed impegnarsi in concreto a non adirarsi. Infatti, se comincia a trasportarci fuori strada, è difficile tornare a salvezza, perché non c’è più nulla di ragionevole, una volta che s’è intromessa la passione e le si è concesso, di nostra volontà, un settore di dominio: su ciò che resta, farà quanto vorrà, non quanto le permetterai.
In primo luogo, direi, bisogna tener lontano il nemico dal territorio; infatti, se riesce a far irruzione e ad oltrepassare le porte, non accetta condizioni dai suoi prigionieri. E l’animo non si trova in posizione isolata, ad osservare le passioni dall’esterno, allo scopo di poter loro impedire di avanzare oltre il giusto limite, ma esso stesso si tramuta in passione, e quindi non può fare appello a quella forza utile e salvatrice, che è già stata consegnata prigioniera e ridotta all’impotenza.
Come ho detto, queste passioni non hanno sedi proprie, realmente distinte e lontane: passione e ragione sono il volgersi dell’animo al meglio o al peggio.
(Seneca, De Ira, I 8, 1 – 3)
Voglio renderti edotto del come le passioni incominciano, si sviluppano e giungono all’esasperazione. Il primo movimento è involontario ed è come un preparativo o una minaccia della passione; il secondo è accompagnato da volontà controllabile ed è il pensare che è necessaria la vendetta, dacché sono stato offeso, o che costui deve essere punito, dacché ha offeso; il terzo movimento è ormai tracotante, non vuole la vendetta perché è necessaria, ma perché la vuole, ed ha già sopraffatto la ragione.
Al primo dei tre impulsi non possiamo sottrarci con la ragione, come non possiamo sottrarci a quelle reazioni fisiche di cui s’è detto, allo sbadiglio quando sbadigliano gli altri, al chiudere gli occhi quando ci puntano improvvisamente le dita contro: questi fatti non li può vincere la ragione; forse li attenua l’assuefazione o una circospezione costante. Ma il secondo movimento, quello che nasce da deliberazione, è anche annullabile con una deliberazione.
(Seneca, De Ira, II 4, 1- 2)



