I Greci la chiamavano polimathia ossia conoscenza di concetti svariati senza organicità e legame interiore. Per il loro modo di pensare, il dire o il sapere molte cose non era affatto garanzia di un vero sapere, poiché questo godeva di compattezza ed armonia di relazioni. Anche per noi oggi, pronunciare molte parole, magari aggiungendo citazione a citazione, non produce una reale sapienza, facendo così potremmo diventare al massimo simili a computer che sanno molte cose i quali però hanno dalla loro parte il pregio di avere una velocità di elaborazione infinitamente più alta di noi.
Eraclito lo aveva capito bene: “Il sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza” (Eraclito, Frammento 40).
Ecco perché l’erudizione ha per il sapiente lo stesso effetto che produce il balbettio del bambino rispetto alla parola dell’oratore o l’impacciato scorrere delle note del musicista inesperto rispetto ai virtuosismi di una grande concertista. L’erudizione non ha sfondo, né sapore, è piuttosto ammasso di informazioni senza ordine né bellezza. Ciò che le manca è la visione d’insieme ed il legame che interiormente lega ogni concetto e per questo le dona unità.
La sapienza invece nasce dal prolungato abitare dell’intelligenza all’interno dei concetti, da un silenzio interiore che permette di unificare le cose conosciute e da quello esteriore che protegge il cammino faticoso dei pensieri, dal respirare continuamente l’odore delle parole e seguire i loro sentieri, dal dialogo critico di interlocutori sapienti che mettono alla prova del fuoco le proprie acquisizioni, dall’umiltà del cuore che cerca ed attende la vera luce del Verbo, dal dono luminoso dello Spirito che come quel raggio di luce del mattino che penetrando attraverso le tapparelle della nostra stanza “fa vedere” progressivamente come stanno le cose intorno a noi.
Ecco perché la sapienza è senza parole, perché le precede e le eccede ed ha il potere di generale tutte.
Dammi Signore la tua luce.