É un tratto di vera nobiltà interiore quello che si instaura quando tra maestro e discepolo, tra colui che ricerca e colui che dirige tale ricerca.
Da una parte c’è l’istruire, la comunicazione ragionata di una serie di nozioni e visioni profondamente collegate tra di loro.
Nessun concetto infatti vive per se stesso ed in se stesso come un’astrazione indipendente, ma è sempre collegato a quello sguardo d’insieme che lo sorregge e lo anima e tuttavia lo trascende. Ma la relazione con un maestro è inevitabile. Nozioni e competenze, infatti, possono essere trasmessi pure da strumenti tecnologici avanzati, ma le visioni d’insieme, le nuove prospettive di ricerca esigono qualcosa che solo l’uomo può dare.
Per questo il rapporto tra persona e persona, nel nostro caso tra maestro e discepolo, non può essere eliminato del tutto, anzi la grande luce della conoscenza che ci afferra e appassiona nasce proprio in virtù di un dialogo, da conversazioni prolungate, nel superamento di asperità e problemi o nei prolungati silenzi che concludono ed aprono una ricerca, ed infine nelle geniali riletture del già conosciuto.
Per far nascere una vera formazione bisogna dunque superare il puro compito della tecnica e pervenire a ciò che è propriamente umano: la sete di verità, il superamento del procedimento necessario e positivo in vista di quelle grandi aperture che nascono a loro volta da domande nuove, domande che a volte emergono come lampi o più semplicemente nella lentezza del pensiero non calcolante.
C’è poi l’educare e cioè il trarre fuori non solamente dai testi ma piuttosto dal cuore e dalla mente dei discepoli (o dai maestri). É come un tematizzare ciò che ancora sta dentro di noi in forma irriflessiva perché qualcosa di già scritto l’avevano trovato anche in noi. Qui si sviluppa l’originalità propria di ogni persona che criticando e collocando la sua esperienza dentro una sapienza condivisa si mette in cammino verso le cose del mondo. Qui riposa l’irripetibilità di ogni ricerca personale.
Dunque c’è l’istruire, l’educare, ed infine il crescere nella verità di noi e del mondo.
Ma è tutto qui? Questo ci basta?
In realtà il cristiano prima di essere un comunicatore di nozioni di diverso tipo è uno che vive e porta una luce che sorregge ogni comunicazione e relazione umana.
Egli prima di ogni passo verso la conoscenza del visibile riceve un’ulteriore strada: rimanendo con la sua vita nella purissima Verità rivelata, in un atteggiamento di semplice obbedienza ad essa, senza oltrepassarla, accettando per così dire in seconda battuta, una luce assolutamente rinnovante, trova il suo terreno stabile e roccioso su cui fondare la sua propria casa ed il suo cammino. Non è un caso che la Chiesa antica faceva iniziare questo inizio ‘di luce’ non da noi ma dalla grazia fondamentale del Battesimo che lo chiama fotismos, Sacramento dell’illuminazione, come una comunicazione di luce e l’ha collegato inscindibilmente con la risurrezione di Cristo. Qui il Maestro è davvero Cristo ed il discepolo l’uomo, per questo per il cristiano il vedere è sempre nella luce, ma solo radicandosi sul quel terreno donato della Verità donata, quella luce ‘rilegge’ l’intero mondo dei fenomeni e della storia.
Così credendo comprende e comprendendo vive.
Alla fine qui si rivela quella vera nobiltà interiore che nessuna tecnica può suscitare e così la nostra vita non si appiattisce più nel visibile e nel toccabile.