Lo osservo ogni giorno. C’è crisi di parola. Quella vera.
Persino l’idea di cultura che dovrebbe rappresentare l’apice del buon verbo esibito e ricevuto si è trasformata nella sua tragica assenza. La parola ci manca. L’attendiamo ma non arriva. D’altra parte, anche noi, non abbiamo più il gusto di una parola che indica una via, che traccia un sentiero sicuro. Abbiamo perduto l’abitudine all’ascolto di quella parola che ci parla con verità di noi stessi davanti a Dio e davanti alla storia.
Però nonostante tutto siamo divenuti ottimi parolai.
Siamo divenuti venditori di fumo perché la parola che quotidianamente usiamo è quella povera, depotenziata, non riflessa, irresponsabile, senza nessun rimando ad una verità sicura, senza nessun fondamento (o quasi) in ciò che è autentico, vero. Distanti dell’etica, la nostra parola si nutre del rifiuto di considerare come suo compito lo sguardo sulle sue conseguenza per la vita di chi parla e di chi ascolta. Molti infatti sono coloro che si dilettano di un significato riduttivo di parola. A loro basta l’accumulo ad oltranza, nel personale thesaurus mentale, di nozioni derivate dai più diversi campi del sapere – magari quelle conoscenze utili alla vita visibile – nozioni che diventano sempre più precise, analitiche, ma che non hanno un fondo si senso comune.
Tutto qui. E l’uomo si riduce a cosa tra le cose.
Avremmo così conquistato una grande spazio nell’orizzontalità, ma senza nessun richiamo alla trascendenza.
A guardare più a fondo la cosa, la sapienza che oggi si cerca è quella che ha stretto forti legami con tutto ciò che permette soluzioni di problemi e possibilità nuove, ma allontanando lo sguardo dall’orizzonte di giustizia e di bellezza che illumina ogni cosa. Più che porre domande che aprono cammini di verità le nostre parole ci servono per trasformarci in persone che cercano solo di avere competenze, specializzazioni innovative, audacia tecnica.
Ma sapere di più significa capacità di essere migliori? Nient’affatto.
Bisogna rendersi conto che l’accumulo di nozioni e possibilità attuative non ci danno la gioia e non ci fanno essere giusti. Agostino a tal proposito parlava della tristezza di chi studia cose ma non cerca la vita vera. Così, alla fine, sappiamo tutto, ma non abbiamo per noi nessuna garanzia di progressione nella verità davanti a Dio.
Sapere e essere rimangono distanti.
Per questo sempre più percepiamo il doloroso paradosso di esser ricchi di saperi e tuttavia non autentici, perché quel sapere così ampio e preciso non ci sazia dentro, non dona felicità duratura. Capaci di risolvere moltissimi problemi e di aprirci ad innumerevoli possibilità, restiamo paurosamente inefficaci circa le domande del nostro cuore. Noi restiamo sordi alla ricerca di verità, gioia, pace, giustizia.
Bisogna cercare allora un sapere differente.
Bisogna cercare un sapere che nutre l’invisibile che c’è in noi, che lo nutre e lo cura. Gesù ci ammonisce :“Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso? (Lc 9,25), Che giova vivere dimenticando l’invisibile che c’è in noi e fuori di noi? Che giova sapere tate cose se poi perdiamo lo sguardo sull’essenziale che ci nutre?
La grandezza della parola di Gesù è proprio quella di averci lasciato una luce che illumina l’intera nostra esistenza, l’intera verità dell’uomo, del mondo e di Dio. Una parola che vive fuori di noi e che tuttavia ci corrisponde perché ci rivela a noi stessi e ci apre ad una cultura veramente ampia ed integrale.
O Signore, dì solo una parola e noi saremo salvi.