Una volta incontrai un monaco che mi disse una cosa sorprendete: Sai la prima cosa che un uomo incontra nella solitudine non è Dio ma se stessi. Si perché prima di conoscere ‘chi è Dio’ c’è sempre bisogno di conoscere noi stessi.
Rimasi molto colpito da questa affermazione e solo molti anni dopo capì tutta la portata di quella semplice affermazione.
Da una parte capì che non si trattava di un invito a lasciare il mondo, ma a conoscere fino in fondo in noi stessi la forza di quella parola di Gesù che dice “poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia”. Bisognava cioè vivere nel mondo senza diventarne complici, senza assaporare il suo inganno o soccombere alle sue preoccupazioni (cf. Lc 12,30).
Dall’altra capì ancora che Dio ordinariamente, se non c’è una grazia speciale, si raggiunge sempre attraverso il visibile, la carne, la parola udita, le cose della vita, le relazioni con gli uomini, gli incontri inaspettati. Dio cioè si dà in una storia. Un po’ come il figlio prodigo della parabola evangelica, comprese chi veramente era il Padre che aveva lasciato solo quando riconobbe nella fame e tra i porci chi era se stesso, come era cambiato.
Sono queste cose che ci aprono al mistero: o la parola udita che spiega chi siamo noi e chi è dio o la storia vissuta che ricorda chi siamo noi e chi è Dio.
Mi ricordai anche di Teresa d’Avila che per lungo tempo non riuscì ad arrivare a Dio fino a quando non decise di mettersi accanto a Gesù nel Getsemani. Proprio lì, accanto all’orante sanguinante poté finalmente aprirsi al Padre Celeste, al Dio invisibile.
L’incarnazione del Figlio eterno, infatti, è veramente la via che lo Spirito Santo offre a tutti per arrivare al Padre. Lui che è la Verità in persona è anche la Via unica che conduce al Padre (cf. Gv 14,6). Lui l’Incarnato.
Gli stessi sacramenti qui sulla terra, sono concretissimi segni e strumenti di quel piegarsi del cielo su di noi.
Così la solitudine non basta e non è tutto. Quel monaco aveva ragione.
Essa è solo il contesto in cui conoscersi davanti a Dio e far sì che le parole diventano ricche e i nostri gesti fecondi, il contesto in cui il nostro passo diventa vero verso ogni uomo di questo mondo.
Forse per questo ho sempre letto una certa verità missionaria in quel detto amato da san Bruno di Colonia: “Beata solitudo, sola beatitudo”.
Per me, sacerdote, non significava staccarsi dal mondo, poiché il Signore stesso dice “andate in tutto il mondo”, ma significava porre in me un distacco, una riserva, affinché ogni pretesa di contraddire gli spazi del Signore siano vanificati.
Lì diventiamo solitari ma non isolati.
Diventiamo in qualche modo imitatori dei profeti, quegli uomini che Dio sceglie per comunicare ancora una sua parola non prigioniera del mondo, uomini dalla grande comunione con Dio e per questo portatori di una distanza che vivifica questo ogni relazione umana. Collocati decisamente dalla parte di Dio, come fece il Signore, vivono nel mondo senza perdere la propria identità di credenti, e sempre uniti al Padre ne diventano i più forti segni e strumenti della sua presenza di pace. Così paradossalmente più ci si avvicina a Dio e maggiormente si è nella verità dalla parte degli uomini.
Dunque: soli con Dio per essere veri fratelli con ogni uomo. Tutto qui. Nient’altro.
Per questo, ancora, possiamo dire: “Oh beata solitudo, sola beatitudo”.