“Ciascuno di noi, in vita, ma in psichiatria in particolare, ha a che fare con le parole: con parole fredde e opache, crudeli e pietrificate, negate alla trascendenza e immerse nell’immanenza, o con parole leggere e profonde, fulgide e discrete, delicate e aperte alla speranza, fragili e friabili, permeabili all’incontro e al dialogo, al cambiamento degli stati d’animo e delle situazioni.
Cosa contrassegna le parole fragili e delicate, le parole che sono arcobaleno di speranza, e cosa le distingue da quelle che non lo sono?
Solo l’intuizione e la sensibilità ci consentono di conoscerle, e di coglierle nei loro orizzonti di senso.
Le parole fragili sono parole portatrici di significati inattesi e trascendenti, luminosi e oscuri, umbratili e crepuscolari. […] In un bellissimo libro di David Khayat, grande oncologo francese, è radicalmente sottolineata l’importanza psicologica e umana delle parole che si rivolgono ai pazienti, e che ne rispettano, o ne lacerano, la dignità e la fragilità.
La chirurgia, la radioterapia e la chemioterapia sono ovviamente strumenti essenziali di cura dei tumori, ma a esse è necessario aggiungere, egli sostiene, un altro strumento: quello delle parole.
Le parole che si dicono, come quelle che si ascoltano; le parole che si condividono, che ci uniscono, che riconfortano, o quelle che feriscono. Le parole sono dotate di un immenso potere: sono in grado di aiutare, di indicare un cammino, di recare la speranza, o la disperazione, nel cuore dei malati che, nel momento in cui scendono nella voragine della sofferenza, hanno un infinito bisogno di dare voce alle loro emozioni e al loro dolore, che è dolore del corpo, e dolore dell’anima.
Quante persone ferite dalla malattia sono lacerate dalle parole troppo violente, troppo dure, troppo inumane, che i medici rivolgono loro. Una diagnosi comunicata in un corridoio o a una segreteria telefonica, un gesto ambivalente che lascia presagire indifferenza o preoccupazione, uno sguardo sfuggente nel momento di rispondere a una domanda: tutto può causare angoscia e disperazione. Cosí, è necessario scegliere parole che possano essere subito comprese, e che non feriscano. Questo è il compito, non facile ma necessario, di chi cura: creare relazioni umane che consentano al malato di sentirsi capito e accettato nella sua fragilità, e nella sua debolezza.
Come dice ancora David Khayat: egli mai avrebbe potuto pensare, all’inizio della sua carriera di oncologo, che nella pratica clinica le parole gli sarebbero state utili come gli strumenti scientifici, ma è stato così; e la parte più importante dell’insegnamento, che egli avrebbe lasciato in eredità ai suoi allievi, sarebbe stato quello di ancorarsi, nella cura, alla bellezza morbida e plastica delle parole: al loro potere terapeutico. Sulla scia di quali gentili parole è possibile dire a una paziente che la sua vita è in pericolo, e che sarà forse possibile salvarla, ma a costo di gravi mutilazioni? Le parole non sono incolori, non sono uniformi, non sono semplici e, solo se sgorgano dal cuore e dal silenzio, solo se sono fragili e gentili, umbratili e arcane, lasciano una traccia profonda nell’anima di chi sta male, e chiede aiuto divorato dall’angoscia e dalla disperazione.
… Ma le parole, certo, non bastano: se i pazienti hanno la sensazione che non si sia avuto il tempo di ascoltarli, di comprenderli, di prendere coscienza delle loro sofferenze, penseranno che non tutto sia stato fatto per essere loro di aiuto.”
(E. Borgna, La fragilità che è in noi, Einaudi, Torino 2014)